Il Manifesto Degli Ecomodernisti - Italiano

Il Manifesto Degli Ecomodernisti - Italiano

Affermare che la terra è il pianeta degli esseri umani diventa ogni giorno più veritiero. Gli uomini sono fatti a partire dalla terra, e la terra è rimodellata dalle mani degli uomini. Molti geologi esprimono questo concetto affermando che siamo entrati in una nuova era geologica: l’Antropocene, l’Età degli esseri umani.

In qualità di accademici, scienziati, attivisti e cittadini, scriviamo con la convinzione che la conoscenza e la tecnologia, applicate con giudizio, possano conseguire l’avvento di un positivo, persino superlativo, Antropocene. Un Antropocene generoso con la specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale.

E per fare ciò, pertanto riaffermiamo un principio cardine degli ideali ambientali, ossia che l’umanità deve allentare il suo impatto sull’ambiente per lasciare più respiro alla natura; e al contempo ne rinneghiamo un altro, ossia che le civiltà debbano entrare in armonia con le leggi naturali per scongiurare il collasso economico ed ecologico.

Questi due ideali non sono ulteriormente conciliabili. In regola generale, fintanto che sostentamento e benessere della specie umana rimangono intimamente dipendenti dall’eco sistema, esso non potrà essere tutelato e valorizzato.

Un Antropocene generoso con la specie umana implica che gli uomini applichino con padronanza i loro crescenti poteri sociali, economici e tecnologici per migliorare il benessere dei loro simili, stabilizzare il clima e proteggere il mondo naturale.

Per realizzare il disaccoppiamento tra sviluppo sociale e impatto ambientale (NR inteso come la differenza tra il consumo di risorse naturali e la capacità della Terra di rigenerarle) la chiave di volta è costituita nell’intensificazione di molte attività umane – in particolare nell’agricoltura, nelle attività estrattive, nello sfruttamento forestale e negli alloggi – al fine di impiegare meno suolo e contenerne l’impronta ecologica. Questi processi socioeconomici e tecnologici costituiscono il fulcro della modernizzazione economica e della protezione ambientale. Combinati assieme permettono all’umanità di intervenire per mitigare i cambiamenti climatici, salvaguardare la natura e alleviare la povertà globale.

Sebbene finora ciascuno di noi individualmente si era espresso e aveva scritto su questi concetti, queste vedute sono il frutto di una discussione approfondita dell’intero gruppo. Ci definiamo degli ecopragmatisti ed ecomodernisti. Sottoscriviamo questa dichiarazione per ribadire e chiarire le nostre posizioni e per descrivere la nostra visione sulle straordinarie opportunità a disposizione dell’umanità per vivere un Antropocene benevolo per l’uomo.

1.

Gli ultimi 2 secoli hanno guidato l’umanità fino a un’epoca di prosperità. L’allungamento della vita media da 30 a 70 anni ha permesso l’aumento della popolazione oggi capace di sopravvivere in ambienti diversi. Sono stati compiuti notevoli progressi nel controllo delle malattie infettive, altresì l’umanità ha perfezionato una maggiore resilienza alle condizioni di meteo estreme e ad altri disastri naturali.

Le tecnologie, a partire dalle pratiche agricole che hanno sostituito le attività di caccia e raccolta, a quelle che oggi guidano la globalizzazione dell’economia, hanno affrancato gli uomini dai differenti ecosistemi, un tempo unica fonte di sostentamento, tanto più fondamentale che gli stessi risultano spesso devastati dal loro sfruttamento estremo.

Diminuisce anche violenza in ogni sua espressione e il tasso di omicidi pro capita è probabilmente il più basso in assoluto dalla notte dei tempi nonostante gli orrendi genocidi del XX° secolo e il terrorismo d’oggigiorno. Complessivamente l’umanità evolve da regimi autocratici verso democrazie liberali caratterizzate da una maggiore certezza del diritto e libertà.

Le libertà personali, economiche e politiche si diffondono e vengono progressivamente sempre più riconosciute come valori universali. La modernizzazione ha emancipato le donne e accresce il loro controllo sulla natalità e contraccezione. Storicamente si osserva che un numero crescente di individui – sia in valori percentuali che assoluti – si è liberato dall’insicurezza, deprivazione e schiavitù.

L’abbondanza conseguita da un parte dell’umanità è avvenuta però a scapito della sopravvivenza di diversi ambienti naturali e della flora e della fauna selvatica. Circa metà della superficie terrestre libera da ghiacci è requisita dagli umani per coltivazioni, allevamenti e gestione forestale. Venti per cento della superficie un tempo ricoperta da boschi e foreste è stata convertita a usi domestici. Nei soli ultimi 40 anni, la popolazione di mammiferi, anfibi e uccelli si è più che dimezzata. Si registra l’estinzione di oltre 100 specie animali nel XX° secolo e l’ammontare sale a 785 se risaliamo al 1500. Al momento in cui stiamo scrivendo, nell’emisfero nord si contano non più di 4 esemplari di rinoceronti bianchi.

Partendo dall’assunto che gli individui sono totalmente dipendenti dalla biosfera, c’è da chiedersi come sia possibile che l’umanità distrugga la biosfera senza provocare ancora più danno a se stessa?

Questo paradosso si spiega dal ruolo svolto dalla tecnologia per allentare il vincolo tra umanità e natura. Le tecnologie, a partire dalle pratiche agricole che hanno sostituito le attività di caccia e raccolta, a quelle che oggi guidano la globalizzazione dell’economia, hanno affrancato gli uomini dai differenti ecosistemi, un tempo unica fonte di sostentamento, tanto più fondamentale che gli stessi risultano spesso devastati dal loro sfruttamento estremo.

Nonostante a partire dagli anni ’70, le ripetute asserzioni sulla necessità di limitare la crescita, sono poche le evidenze che provano che, in un predicibile futuro, la popolazione e lo sviluppo economico possano esaurire le potenzialità di procurarsi cibo e risorse indispensabili.

Nella misura in cui si pongono dei limiti fisici al consumo umano, sono talmente teoretici da risultare irrilevanti dal punto di vista funzionale. Per esempio, l’ammontare delle radiazioni solari che colpiscono la terra è un numero finito, ciononostante non costituisce, in qualsiasi misura, un limite all’intraprendenza umana. Per i prossimi secoli e millenni, lo sviluppo della civiltà può tranquillamente essere alimentato dall’enorme quantità di energia liberata dalla fusione a ciclo chiuso usando l’uranio o il torio come combustibile, oppure dall’idrogeno-deuterio.

Seguendo un’avveduta gestione, gli umani non rischiano di mancare di superficie agricola in grado di sfamare tutti. Con sufficienti terre e soprattutto energia illimitata, è agevole individuare delle alternative alle risorse indispensabili per la prosperità dell’umanità quando diventano scarse o troppo onerose.

Eppure sul lungo termine gravi minacce ambientali insidiano il benessere dell’umanità, come il cambiamento climatico di origine antropogenica, l’assottigliamento della fascia dell’ozono, l’acidificazione degli oceani. Sebbene i rischi siano difficili da quantificare, ci sono oggigiorno sufficienti prove per capire l’impatto devastante di questi fenomeno su società ed ecosistemi. Anche l’accadimento solo parziale e non catastrofico di una di queste minacce, comporterebbe dei costi umani ed economici notevoli, oltre alla proliferazione delle perdite ecologiche.

La maggior parte della popolazione mondiale è esposta a rischi ambientali di portata locale soffrendone poi conseguenze a livello di salute. L’inquinamento indoor e outdoor è il responsabile di milioni di morti premature e di malattie croniche. Ugualmente questo accade con la contaminazione di falde acquifere dovuta all’inquinamento e degrado.

2.

Sebbene, in valori complessivi, l’impronta ecologica continui a dilatarsi, a lungo termine si evidenziano delle tendenze che indicano che il benessere e la salute dell’umanità possano essere conquistati pagando uno scotto ambientale meno pesante di quello storicamente sostenuto.

In base all’esame di alcuni andamenti, è altamente probabile che la popolazione mondiale raggiunga il suo picco durante il secolo in corso per iniziare poi il suo declino.

Questo disaccoppiamento si realizza sia in termini assoluti che relativi. In valori relativi significa che l’impatto ambientale aumenta in misura meno che proporzionale del tasso di accrescimento del benessere degli individui. Quindi ogni unità aggiuntiva di bene consumato richiede un’unità proporzionalmente inferiore di mare e di terra necessaria a rigenerare le risorse consumate. Quantitativamente esso può essere espresso in termini di km2 di foreste abbattute, di tonnellate di emissioni di gas inquinanti, di numero di specie scomparse, ecc. Complessivamente questi valori possono comunque aumentare ma con una dinamica di crescita inferiore a quella attesa. Il disaccoppiamento assoluto tra crescita economica e impatto ambientale si realizza invece quando i valori aggregati della variabile ecologica dopo un’impennata tendono a declinare anche quando l’economia prosegue la sua ascesa.

Il disaccoppiamento può risultare sia dall’effetto dell’avanzamento tecnologico che dai trend demografici, generalmente è la risultante dell’effetto combinato dei due.

La tasso di crescita della popolazione mondiale ha già toccato il suo picco. Oggi l’aumento della popolazione è di 1% annuo, giù da 2,1% degli anni ’70. Il tasso di fecondità nei paesi che rappresentano più della metà della popolazione mondiale sono sotto la soglia che permette di mantenere costante la propria struttura demografica. Attualmente la popolazione si accresce per effetto dell’allungamento della durata di vita e per il calo della mortalità infantile ma non per l’aumento del tasso di fecondità. Date queste tendenze è più che probabile che la popolazione mondiale raggiunga il suo picco durante questo secolo per poi iniziare il suo declino.

L’andamento della popolazione mondiale è strettamente correlato ad altre dinamiche demografiche ed economiche. Per la prima volta nella storia, oltre metà della popolazione mondiale vive in una città. Entro il 2050, si presuppone che 70% degli abitanti della terra sia cittadino, valore che potrebbe salire a 80% e oltre entro la fine del secolo. [1] Le città si caratterizzano dalla alta densità abitativa e dal basso tasso di fecondità.

Le città occupano appena il 3% della superficie terrestre e accolgono quasi 4 miliardi di abitanti.

Le città occupano appena il 3% della superficie terrestre e accolgono quasi 4 miliardi di abitanti. Le città sono al tempo stesso traino ed emblema dell’affrancamento dell’umanità dalla natura. Rispetto al contesto rurale sono più efficienti perché rispondono ai bisogni collettivi contenendo l’impatto ambientale.

La crescita delle metropoli assieme ai benefici economici e ambientali conseguenti è in diretta correlazione con lo sviluppo della produttività agricola. Quando l’agricoltura consuma suolo e lavoro in modo più produttivo parte della popolazione rurale defluisce verso le città. Negli USA metà della popolazione era impiegata nei campi nel 1880. Oggi, rappresenta meno del 2%. [2]

Quando molteplici esistenze si sono emancipate dalle fatiche dell’agricoltura premoderna, si sono liberate molte risorse umane che è stato possibile destinarsi ad altre attività. Le metropoli, come le conosciamo noi oggi, non potrebbero esistere senza i cambiamenti radicali avvenuti in agricoltura. Viceversa la modernizzazione è irrealizzabile mantenendo un’agricoltura di sussistenza.

Questi avanzamenti benefici comportano non solamente un minor impiego di forza lavoro per unità di produzione agricola ma anche un più contenuto consumo di suolo. Non si tratta di un fenomeno completamente nuovo: il progressivo incremento del raccolto ha, nel corso dei millenni, ridotto la superficie di terreno coltivato necessario per sfamare un individuo. L’ammontare di suolo pro capita utilizzato oggi è immensamente inferiore a quello di 5 mila anni fa, nonostante l’uomo moderno goda di una dieta molto più ricca di quella dei suoi antenati. Grazie ai progressi nelle tecniche di coltivazioni a partire della metà degli anni ’60 per circa metà secolo, si è letteralmente dimezzata l’occupazione del suolo per le piantagioni e la quantità di mangimi necessari per produrre il nutrimento di un individuo.

L’intensificazione dell’attività agraria combinata con l’abbandono della legna come combustibile, ha consentito a diverse aree del mondo di registrare un saldo netto positivo della riforestazione. Circa 80% del New England è coperto da boschi, rispetto al 50% alla fine del 19°secolo. Negli ultimi 20 anni, a livello mondiale, l’estensione di terre destinate allo sfruttamento di foreste si è ristretta di 50 milioni di ettari, una superficie pari a quella della Francia. [3] La transizione da una condizione di deforestazione netta a quella di riforestazione netta è da considerarsi il connotato distintivo dello sviluppo resiliente, esattamente come nella transizione demografica, Il declino della povertà comporta una riduzione del tasso di natalità.

Lo stesso andamento decrescente si riscontra per altre risorse sfruttate dall’uomo. L’ammontare di acqua occorrente per produrre il fabbisogno per una dieta media è diminuito di 25% nell’arco dell’ultimo mezzo secolo. L’inquinamento da scarichi di azoto che si è andando sviluppando, ha provocato l’eutrofizzazione e la morte di zone degradate dell’ampiezza del Golfo del Messico. Mentre cresce l’ammontare complessivo di azoto, nei paesi sviluppati la dose per unità di output agricolo si è notevolmente ridotta.

Nel complesso questi andamenti stanno ad indicare che globalmente l’impatto umano sull’ambiente, inteso come il cambiamento di destinazione del suolo, lo sfruttamento intensivo e l’inquinamento, toccherà il suo picco per poi declinare all’interno di questo secolo. Nel cogliere e anticipare questi fenomeni emergenti, l’umanità ha l’opportunità di riportare il pianeta in uno stato più selvatico e più verde – senza interferire con l’accrescimento del benessere nei paesi in via di sviluppo né con la lotta alla povertà.

Indubbiamente in contraddizione con la paura diffusa che la crescita infinita si scontri con i limiti finiti del nostro pianeta, il raggiungimento della prosperità in una società consumistica, porta alla saturazione della domanda di alcuni beni materiali. Per esempio, nei paesi occidentali, dopo una prima esplosione del consumo di carne, la domanda si sta progressivamente orientando verso fonti di proteine alternative che risultano meno dispendiose nell’uso di suolo.

Una volta soddisfatta la domanda di beni materiali, nelle economie sviluppate si osserva un aumento di spesa dei servizi e dell’economia della conoscenza che assume uno peso crescente nell’insieme delle attività economiche. Questo fenomeno si accentua addirittura nei paesi in via di sviluppo in cui subito si adottano le tecnologie di frontiera, quelle più avanzate, ossia ad alto rendimento e basso consumo.

Nel complesso questi andamenti stanno ad indicare che l’impatto umano globale sull’ambiente, inteso sotto la forma di cambiamento di destinazione del suolo, sfruttamento estensivo e inquinamento, toccherà il suo picco per poi declinare all’interno di questo secolo. Nel cogliere e anticipare questi fenomeni emergenti, l’umanità ha l’opportunità di riportare il pianeta a uno stadio più selvatico e più verde, senza interferire con la parabola del benessere nei paesi in via di sviluppo, né confliggere con la lotta alla povertà.

3.

Il processo di disaccoppiamento sopradescritto scardina l’idea comune che la permanenza dell’uomo primitivo sul pianeta terra sia più innocua di quella del suo omologo moderno. L’impronta ambientale delle società antiche risultava meno evidente solo perché numericamente molto contenute rispetto alla popolazione attuale.

Per soddisfare i bisogni essenziali di sopravvivenza i nostri antenati sfruttavano tecnologie le quali a parità di standard di vita determinano un impatto ambientale ben superiore.

Le tecnologie a disposizione dei nostri antenati si caratterizzavano per un livello di soddisfazione qualitativamente molto più basso a fronte di un impatto ambientale pro capita molto più elevato.

In pratica, nelle società agli albori della civilizzazione, si disponeva di tecnologie primitive con un’impronta ambientale molto più rovinosa di quella delle tecnologie in uso nelle società contemporanee. Prendete ad esempio lo stile di vita di un paio di milioni di nordamericani nel tardo Pleistocene, che riuscirono a cacciare fino alla loro estinzione i grandi mammiferi del continente, e bruciare e distruggere intere foreste. Le estensive trasformazioni antropiche dell’ambiente sono proseguite durante l’Olocene: due terzi della deforestazione planetaria che ha trasfigurato la terra è avvenuta prima della Rivoluzione industriale.

Le tecnologie in mano ai nostri antenati si distinguevano per un livello di soddisfazione qualitativamente molto inferiore e comportavano un impatto ambientale pro capita molto maggiore. Qualsiasi tentativo su vasta scala di simbiosi tra attività umane e ambiente naturale con il solo ausilio di quelle primordiali tecnologie, avrebbe comportato, senza un’estinzioni di massa della popolazione, un vero e proprio disastro ecologico e umano.

Gli ecosistemi nel mondo sono minacciati perché gli individui si affidano in modo eccessivo alle loro risorse: coloro che si approvvigionano esclusivamente di legna e lignite per scaldarsi e cucinare abbattono e distruggono foreste; coloro che si cibano unicamente di carne di foresta cacciano fino alla loro scomparsa le specie animali sul territorio locale. Che sia per il beneficio della comunità indigena locale o per i profitti di una multinazionale straniera, la protratta strenua dipendenza di individui ad un ambiente naturale costituisce il nocciolo del problema della conservazione della natura.

All’opposto, le tecnologie moderne assecondando l’inclinazione naturale degli ecosistemi e operando in maniera più efficiente, forniscono all’umanità una reale opportunità di contenere complessivamente il suo impatto sulla biosfera. Adottare queste tecnologie è la via per realizzare un Antropocene generoso con la specie umana.

I processi di modernizzazione che hanno consentito l’affrancamento dell’umanità dai vincoli e limiti imposti dalla natura sono comunque armi a doppio taglio, in quanto anche responsabili del degrado dell’ambiente naturale. Combustibili fossili, meccanizzazione, industrializzazione, fertilizzanti di sintesi e pesticidi, elettrificazione, reti di trasporto e comunicazioni moderne hanno permesso in primo luogo l’accrescimento della popolazione e l’aumento dei suoi consumi. Se non vi fosse stato, a partire dai secoli bui della storia dell’umanità, uno sviluppo tecnologico, gli umani non si sarebbero potuti moltiplicare come hanno fatto.

E’ vero che per soddisfare i bisogni della numerosa popolazione metropolitana benestante è cresciuta la pressione su degli ecosistemi distanti; per esempio, l’estrazione mineraria è stata la prima attività a globalizzarsi. Ma queste stesse tecnologie hanno consentito di provvedere alla richiesta di cibo, protezione, calore e illuminazione, con dei mezzi che consumano suolo e risorse in modo molto più efficiente rispetto a quelli usati dall’umanità nelle epoche precedenti della sua storia.

Per riuscire a disgiungere i due fenomeni: la prosperità dell’umanità e la distruzione dell’ambiente, è necessario cogliere consapevolmente gli emergenti processi di disaccoppiamento. In alcuni casi, l’obiettivo consiste nello sviluppo di sostituiti. Per contenere la deforestazione e l’inquinamento indoor si tratta di sostituire i combustibili legna e carbone, con forme di energia moderna.

Urbanizzazione, acquacoltura, agricoltura intensiva, energia nucleare e desalinizzazione sono tutti processi con dimostrato potenziale per ridurre la pressione dei bisogni degli individui sull’ambiente, ciò consente per converso di lasciare più spazio alle specie non-umane.

In altre fattispecie, l’obiettivo dovrebbe essere uno sfruttamento più produttivo delle risorse. Per esempio, accrescere il rendimento per ettaro coltivato riesce ad arrestare l’emorragia di foreste e praterie convertite all’agricoltura. Gli uomini dovrebbero impegnarsi a sollevare l’ambiente dal giogo dell’economia.

Urbanizzazione, acquacoltura, agricoltura intensiva, energia nucleare e desalinizzazione sono tutti processi con dimostrato potenziale per allentare la pressione dei bisogni degli individui sull’ambiente, ciò consente per converso di lasciare più spazio alle specie non-umane. Ruralizzazione, agricoltura a basso rendimento e molte forme di generazione di energia da fonti rinnovabili, sono all’opposto, dispendiose in termini di occupazione del suolo e delle risorse, e restringono lo spazio residuo per la natura.

Questi modelli suggeriscono l’idea che gli uomini hanno maggiore propensione a preservare la natura sulla base di convincimenti utilitaristici, in quanto non ne hanno bisogno per soddisfare i loro bisogno, piuttosto che in base a motivazioni estetiche o spirituali. Le zone del pianeta che sono rimaste maggiormente incontaminate sono quelle risparmiate perché non si sono trovate valide ragioni economiche per depauperarle: montagne, deserti, foreste boreali e altre terre “marginali” .

Il disaccoppiamento aumenta le probabilità che il picco dell’impatto umano venga toccato senza invadere ulteriori aree quasi vergini. La natura non utilizzata uguale natura salvata.

4.

L’accesso a energia moderna è prerequisito essenziale per lo sviluppo umano e fondamentale per il disaccoppiamento tra il soddisfacimento dei bisogni degli individui e quelli della natura. La disponibilità di fonti energetiche abbondanti e poco costose consente ai poveri del mondo di smettere di utilizzare legna come combustibile. E grazie all’uso estensivo di fattori produttivi a forte intensità energetica come i fertilizzanti e trattori, diventa possibile produrre più cibo con meno terra. L’energia permette di riciclare le acque reflue e desalinizzare l’acqua del mare di modo da preservare i corsi d’acqua e le falde acquifere. Consente di riciclare in modo conveniente metalli e plastica per rallentare l’estrazione intensiva e la lavorazione di minerali. Guardando in prospettiva l’energia moderna ci permetterà un giorno di catturare il carbonio dall’atmosfera di modo da calmierarne l’accumulo fautore del cambiamento climatico.

L’accesso a energia moderna è prerequisito essenziale per lo sviluppo umano e fondamentale per il disaccoppiamento tra il soddisfacimento dei bisogni degli individui e quelli della natura.

Negli ultimi 3 secoli, l’aumento complessivo della produzione di energia è stato accompagnato dall’incremento della concentrazione atmosferica di diossido di carbonio. Progressivamente i paesi hanno intrapreso la via della decarbonizzazione, ovvero hanno ridotto l’intensità carbonica dell’economia, ma non a un ritmo sufficientemente in linea con le attese fissate dall’obiettivo internazionale di contenere l’innalzamento di temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi. Al fine di realizzare l’auspicata mitigazione climatica è necessario che l’umanità acceleri il processo di transizione verso la decarbonizzazione dell’economia.

Permane tuttavia una grande confusione sulle modalità per conseguirla. Nei paesi in via di sviluppo l’incremento di domanda di energia è strettamente correlato all’aumento dei redditi e miglioramento della qualità di vita. Sebbene il consumo di azoto, legname e del suolo si sta avvicinando al culmine, l’energia rimane il cuore del motore dello sviluppo umano e centrale per le sue molteplici applicazioni come sostituto di materiali e come forza lavoro; ciò lascia pensare che la domanda di energia continuerà ad essere in aumento per molto tempo ancora, se non per tutto il XXI° secolo.

Per questa ragione, qualsiasi contrasto tra gli obiettivi di mitigazione del clima e il processo di evoluzione di sviluppo inteso come l’innalzamento degli standard di benessere di miliardi di persone, si risolverà decisamente a favore di quest’ultimo.

I cambiamenti climatici e altre sfide ambientali globali non costituiscono la principale e immediata preoccupazione della maggioranza della popolazione mondiale. E neppure così dovrebbe essere. Una nuova centrale elettrica a carbone in Bangladesh comporta sì inquinamento e aumento delle emissioni di diossido di carbonio, ma contribuisce anche a salvare vite. Per quelle centinaia di milioni di individui forzati a vivere senza luce e bruciare sterco per cucinare, elettrificazione e combustibile moderno, non importa di quale fonte, è la promessa di una vita migliore sebbene apra nuove sfide ambientali.

Una mitigazione climatica significativa si riassume fondamentalmente in una sfida tecnologica. Con quest’affermazione intendiamo che pur imponendo dei limiti critici al consumo pro capite, si rivelerebbe un’arma spuntata per sconfiggere i cambiamenti climatici. In assenza di radicali trasformazioni tecnologiche è inverosimile ipotizzare raggiungere una consistente mitigazione climatica.

Riconosciamo che sul particolare mix di tecnologie da adottare, coesistono delle diversità di vedute, mentre siamo consapevoli che non può esistere un convincente percorso di mitigazione climatica nel quale i cambiamenti tecnologici non partecipino in maniera decisiva al taglio delle emissioni.

In dettaglio il quadro tecnologico indicato per la lotta contro i cambiamenti climatici è molto controverso. Gli scenari teorici di mitigazione climatica riflettono le preferenze tecnologiche dei loro proponenti e i loro assunti analitici, mentre tutti, troppo spesso, cadono nell’errore di sottovalutare il costo, o nella trappola di sopravvalutare la velocità e scalabilità di applicazione delle misure low-carbon.

La transizione verso una generazione con fonti a zero emissioni richiederà delle tecnologie ad elevata intensità energetica e in grado di essere facilmente scalabili per produrre le svariate decine di TWh indispensabili per trainare l’espansione dell’economia mondiale.

I precedenti storici di transizione energetica suggeriscono l’esistenza di modelli ricorrenti secondo cui le società si muovono verso fonti energetiche più pulite. Sostituire combustibili di più bassa qualità (quelli con maggiore intensità carbonica e minore densità energetica)con combustibili di più alta qualità (quelli con minore intensità carbonica e maggiore densità energetica) è la modalità secondo cui praticamente ogni società ha, nei fatti, decarbonizzato la propria economia; altresì indica l’indirizzo secondo cui dovrebbe realizzarsi in futuro l’accelerazione verso la decarbonizzazione.

La transizione verso una generazione con fonti a zero emissioni richiederà delle tecnologie ad elevata intensità energetica e in grado di essere facilmente scalabili per produrre le svariate decine di TWh indispensabili per trainare l’espansione dell’economia mondiale.

Sfortunatamente la maggior parte delle energie rinnovabili non possono garantirlo. Sia per l’estensione di suolo consumato che per altri impatti ambientali, tanto i biocombustibili quanto diverse altre fonti rinnovabili non ci appaiono affidabili per traghettare il pianeta verso un’impronta zero carbonio.

Fanno eccezione le celle solari ad alta efficienza fabbricate con materie prime esistenti in abbondanza sul pianeta, che hanno un potenziale di generazione di svariate decine di terawattora a fronte di un consumo di appena qualche percento della superficie terrestre. La convenienza delle attuali tecnologie solari richiede un salto tecnologico nei sistemi di accumulo e conservazione dell’energia, che è cruciale per rispondere all’elevata variabilità di generazione della fonte solare nel suo sfruttamento su larga scala.

Ad oggi la fissione nucleare si è dimostrata l’unica tecnologia energetica a zero emissioni con la capacità di soddisfare la maggior parte, se non tutti , i requisiti di fabbisogno energetico moderno. Tuttavia una serie di sfide sociali, economiche e istituzionali ne impediscono un più ampio dispiego e rendono assai improbabile il ricorso al nucleare come l’elettrotecnologia su vasta scala per la mitigazione climatica. Bisogna aspettare una nuova generazione, più sicura e a costi più bassi, affinché l’energia da atomo esprima completamente il suo potenziale come tecnologia strategica nella sfida climatica.

Nel lungo termine, una nuova generazione di tecnologie solari, una fissione nucleare più avanzata e la fusione nucleare rappresentano il percorso più verosimile per conseguire la stabilizzazione delle temperature e raggiungere il disaccoppiamento tra l’uso dell’energia e le ricadute ambientali.

Se la storia della transizione energetica può essere un riferimento, allora è chiaro che quella transizione richiederà tempo. Durante la fase transitoria, altre tecnologie energetiche possono procurare importati benefici sociali e ambientali. Le dighe, per esempio, possono costituire una fonte a basso tenore di carbonio conveniente per le nazioni povere sebbene l’idroelettrico registri un’impronta idrica e un consumo del suolo notevole. Similarmente i combustibili fossili accompagnati da tecniche di CCS (cattura e stoccaggio del carbonio) rappresentano da un punto di vista ambientale, un superamento dei biocombustibili e delle centrali convenzionali a combustibili fossili.

Il percorso etico e pragmatico che approda a un’economia equa e sostenibile richiede prontezza nella transizione a fonti di energia abbondanti, poco costose, pulite e ad alta densità energetica.

5.

Abbiamo scritto questo documento mossi da un profondo legame affettivo ed emotivo per il mondo naturale. Apprezzare, scoprire, sforzarsi di comprendere e avvicinarsi alla natura ha rappresentato per molti l’opportunità di uscire da se stessi. Anche coloro che non hanno mai avuto occasione di confrontarsi direttamente con il mondo selvatico, ammette che la conoscenza dell’esistenza di questi luoghi procura loro un senso di benessere psicologico e spirituale.

Abbiamo scritto questo documento mossi da un profondo legame affettivo ed emotivo per il mondo naturale.

Gli uomini devono comunque rassegnarsi a dipendere sempre in una certa misura dalla natura. Quand’anche fosse possibile vivere in un mondo completamente artificiale, molti di noi preferirebbero ancora vivere in stretta connessione con la natura; un legame ben più intenso di quanto non lo richiederebbero il sostentamento e la tecnologia a disposizione. E’ proprio il disaccoppiamento a consentire di rendere meno devastanti gli effetti della dipendenza materiale dell’umanità dall’ambiente naturale.

Sono gli argomenti spirituali ed estetici più di quelli materiali o utilitaristici a permeare maggiormente il movimento di pensiero che sostiene la leva di un disaccoppiamento attivo, consapevole e spedito per salvaguardare la natura. Le generazioni contemporanee e quelle future potrebbero comunque sopravvivere e prosperare su un pianeta privo di biodiversità e zone selvagge. Ma questo non è il genere di mondo che vogliamo, così come non è necessariamente quello che ci toccherebbe, se venisse perseguito il processo di disaccoppiamento.

Quello che noi intendiamo per natura o persino natura selvaggia, comprende paesaggi terrestri, ambienti marini, biomi ed ecosistemi i quali, nella maggioranza dei casi, sono stati per secoli se non millenni, alterati dall’influsso umano. Le scienze della conservazione della natura e i concetti di biodiversità, complessità e indigenità, sono utili ma non sufficienti a determinare quale spicchio di territorio tutelare o come.

Nella maggior parte dei casi non esiste una base di rilevamento prima dell’intervento antropico alla quale rifarsi per riportare la natura al suo stato anteriore. Per esempio, gli sforzi per ricondurre un paesaggio a ciò a cui somigliava in origine (“indigenità”) può richiedere di allontanare specie giunte successivamente (“invasive”) e quindi a conti fatti, indurre una sottrazione nella biodiversità locale. In altri termini, le comunità sono chiamate a esprimersi se privilegiare l’indigenità a danno del mutamento e della biodiversità.

Solo attraverso una profonda e intensa relazione con la natura, la sua biodiversità e la struggente bellezza dei panorami incontaminati si può sperare di realizzare il disaccoppiamento tra il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo e la loro conseguente pressione sulla natura.

L’impegno a preservare dei paesaggi incontaminati non finalizzati al loro valore funzionale sono le conseguenza di scelte di natura antropica. Si tratta della scelta arbitraria che riflette le preferenze nella scala valoriale dell’umanità specificatamente a quel momento e a quella latitudine: adoperarsi per la difesa di luoghi selvaggi equivale alla decisione di spianarli coi buldozer. Le persone salveranno luoghi e paesaggi selvaggi convincendo il resto dell’umanità che quei posti e i loro occupanti sono meritevoli di protezione. Sarà unicamente sulla base della soggettività che la mobilitazione degli uomini per risolvere il problema del depuramento delle acque o della difesa dalle inondazioni, si perfezionerà ricorrendo all’armamentario offerto dalla natura; vedi gli spartiacque ricavati da bacini idrografici in zone boschive, rocce, paludi e zone umide, sebbene questi sistemi naturali siano più costosi delle alternative artificiali tipo la costruzione di impianti di depurazione, dighe, argini. Non esiste una soluzione universale adatta per l’intera casistica.

L’aspetto esteriore di un ambiente è la risultante dell’insieme delle inclinazioni locali, storiche e culturali. Allorché noi confidiamo nell’intensificazione delle attività agricole finalizzate al risparmio del suolo quale chiave per la salvaguardia dell’aspetto incontaminato della natura, riconosciamo il diverso approccio di altre comunità che fanno convivere sullo stesso suolo, la flora e fauna selvatica assieme alle coltivazioni, piuttosto che riportare i terreni a uno status pre-addomesticazione di prateria, macchia e foreste. Sebbene il disaccoppiamento alleggerisca la pressione su paesaggi ed ecosistemi nel soddisfare i bisogni di sussistenza dell’umanità, sono i proprietari terrieri, le comunità locali, i governi a decidere se destinare quelle superfice a finalità estetiche o economiche.

Il disaccoppiamento da solo non è una condizione sufficiente per garantire la sopravvivenza di fauna e flora selvatiche. E’ necessario anche il contributo di una politica di conservazione e di movimento di opinione di difesa della natura selvaggia mosso da motivazioni spirituali e estetiche.

Solo attraverso un intenso attaccamento emozionale con la natura, la sua biodiversità e la struggente bellezza dei panorami incontaminati, si può sperare di realizzare il disaccoppiamento tra il soddisfacimento dei bisogni dell’uomo e la loro conseguente pressione sulla natura.

6.

Affermiamo il bisogno e la capacità umana di attivare un processo di disaccoppiamento celere, vigoroso e consapevole. Il progresso tecnologico non è imprescindibile. Disaccoppiate l’impatto ambientale dalla produzione di reddito non è unicamente funzione dell’innovazione indotta dal mercato e dell’efficiente risposta alla scarsità. La lunga parabola delle trasformazioni di ambienti naturali mediante tecnologie è decollata ben prima che esistesse una qualsiasi cosa somigliante a un segnale di mercato o a un indicatore di prezzo. Sono millenni che gli uomini rimodellano il pianeta sotto la spinta della domanda crescente, alla scarsità, all’ispirazione e alla serendipità.

Le soluzioni tecnologiche finalizzate a problemi ambientali devono essere valutate in una prospettiva più ampia in funzione anche del contesto sociale, economico e politico. Riteniamo che sia controproducente per nazioni come la Germania e il Giappone e stati come la California, chiudere impianti nucleare, tornare indietro aumentando i tassi di carbonio del settore energetico, e far dipendere le loro economie da combustibili fossili e biomasse. Tuttavia, questi casi dimostrano come le scelte tecnologiche non siano il risultato delle raccomandazioni di organismi internazionali distanti bensì l’espressione delle pressioni politico-culturali nazionali e locali.

Troppo spesso il processo di modernizzazione è confuso, sia dai suoi sostenitori che dai suoi oppositori, con il capitalismo, il potere delle multinazionali, le politiche economiche di laissez-faire. Noi rifiutiamo codeste associazioni riduttive. Quando parliamo di modernizzazione facciamo riferimento allo sviluppo sociale, politico, economico e tecnologico della società su un lungo arco temporale che si accompagna dal miglioramento del benessere materiale e della salute pubblica, dall’aumento della produttività, dall’inclusione economica e condivisione delle infrastrutture e dall’avanzamento delle libertà personali.

La modernizzazione, più di ogni altro, ha affrancato persone dalla povertà e dall’agricoltura di sussistenza, emancipato le donne, liberato i minori e le minoranze etniche dall’oppressione e consentito alle società di sottrarsi a governi arbitrari e capricciosi. La crescente produttività unita al un tessuto sociale più tecnologico consente di soddisfare i fabbisogni umani con un minore consumo di risorse alleggerendo così l’impatto sull’ambiente.

Maggiore la produttività delle economie più consistente la loro risposta alle esigenze della società, perché sono in grado di destinare più mezzi derivanti dal surplus economico a bisogni di natura non economica, quali la prevenzione della salute, la tutela delle libertà individuali, lo sviluppo delle arti, la cultura e la conservazione ambientale.

Il disaccoppiamento il benessere dell’umanità dalla dipendenza verso la natura richiede un sostenuto impegno nel progresso tecnologico e parallelamente, un’evoluzione continua delle istituzioni sociali, economiche e politiche per recepire queste trasformazioni.

Il processo di modernizzazione è ben lontano dall’essere completato, anche nelle economie avanzate. Solamente ora nelle nei paesi più sviluppati ci si avvicina all’apice della curva della domanda di consumo di beni materiali.

Il disaccoppiamento del benessere dell’umanità dalla dipendenza verso la natura richiede un sostenuto impegno nel progresso tecnologico e parallelamente, un’evoluzione continua delle istituzioni sociali, economiche e politiche per recepire queste trasformazioni.

Senza il coinvolgimento e la partecipazione consapevole e risoluta di tutte le parti sociali e di tutte le componenti della società civile non è realizzabile l’accelerazione del progresso tecnologico. Se rifiutiamo la fallacia pianificatrice degli anni ’50, spalleggiamo invece, un forte ruolo d’indirizzo pubblico nelle problematiche ambientali e nel favorire uno scatto d’innovazione tecnologica, ricorrendo a strumenti di sostegno a R&S, anche sussidi e altre misure per aiutarne la transizione sul mercato, così come l’approvazione di un quadro normativo per contenere il rischio ambientale. Riteniamo essenziale una collaborazione internazionale per favorire il trasferimento tecnologico, essenziale soprattutto in campo energetico e agricolo.

7.

Sottomettiamo alla vostra attenzione questa dichiarazione nella convinzione che la prosperità degli individui e un pianeta terra vitale, non sia solo possibile ma che i due termini siano legati indissolubilmente. Noi la riteniamo una condizione futura realizzabile attraverso il proseguimento del processo, già intrapreso, di disaccoppiamento, per disgiungere la conquista del benessere degli uomini dalla distruzione ambientale. In quanto tale, noi siamo fiduciosi nelle potenzialità delle capacità umane e del futuro.

Apprezziamo i principi di democrazia, tolleranza e pluralismo in quanto tali, tanto più che li consideriamo fattori propulsivi per un Antropocene superlativo.

E’nostro auspicio che questo documento possa contribuire a un miglioramento della qualità e del livello del dialogo su come preservare l’ambiente nel XXI° secolo. Troppo spesso i confronti sul tema sono stati dominati da estremismi, guastati da dogmatismi i quali a loro volta alimentano l’intolleranza. Apprezziamo i principi di democrazia, tolleranza e pluralismo in quanto tali, tanto più che li consideriamo fattori propulsivi per un Antropocene superlativo. Confidiamo che questa dichiarazione aiuti il dialogo su quale sia la migliore strada per la conquista universale della dignità umana nel rispetto della biodiversità di un pianeta fiorente.

Tradotto da Patrizia Feletig.

Note

[1] In Europa il 41% della popolazione vive in città, in Italia il 40% Dati Istat

[2] Nell’Italia pre-unitaria 80/85% della popolazione lavorava nei campi. Oggi l’agricoltura impiega 3,6% dei lavoratori.

[3] Dal 1945 ad oggi in Italia le foreste sono raddoppiate (Fonte: Inventario nazionale delle Foreste e del Carbonio)